Il dramma colossale e silenzioso dell’emigrazione di chi realmente fugge dalla guerra, quella italiana del lavoro e delle mancate opportunità

Secondo un rapporto Svimez negli ultimi dieci anni sarebbero 200.000 i laureati che hanno abbandonato il sud Italia per cercare lavoro altrove. Questo dato, purtroppo più che attendibile e sempre più non circoscritto al sud, è ancor di più allucinante se lo consideriamo come cartina di tornasole di un vero fenomeno di sostituzione etnica che entro circa mezzo secolo vedrà preponderare a meridione entità verosimilmente allogene che si divideranno la torta con quel ristretto circolo di ingordi neofeudatari che tramandano di padre in figlio il diritto incontrastato al godimento ed alla distribuzione di terra, lavoro, pubblici uffici.

Il novero delle persone che oggi coesistono e resistono tirando a campare si sta quindi sempre più assottigliando. Essi appaiono al tempo stesso come perdenti nostalgici ed epici eroi, condannati alla mediocrità esistenziale, ma rivoluzionari nella loro strenua difesa di quelle radici che la società moderna tenta in tutti i modi di estirpare avvalendosi dei mefitici mantra della flessibilità e del mondo globale e multietnico in cui tutti sono cittadini di tutto, i muri sono da abbattere ed i cattivi siamo sempre noi.

Questa filosofia nichilista e materialista viene inoculata nei giovani con svariati mezzi fra cui il famigerato Erasmus, uno zuccherino di un semestre di (poco) studio e di (molta) trasgressione rigorosamente a spese altrui (papi) che ha scolpito nel loro subconscio la convinzione che tutto il mondo può essere patria e che i luoghi natii vanno riservati al massimo alle visite di Natale o Pasqua, periodi considerati non come ricorrenze tradizionali (non sia mai che gli allogeni si offendano!) bensì come occasioni per alimentare la macchina consumistica.

Ci vogliono anglofoni, universali, sempre con una valigia pronta e senza nostalgie per ciò che si lascia perché la nostalgia non è produttiva ed agli affetti familiari ci pensano Skype e gli aerei a basso costo da prendere per le vacanze o per correre al capezzale di un nostro caro. Ed in caso di nostalgie meno nobili come quelle culinarie in qualsiasi angolo d’Europa troveremo sicuramente chi ci prepara una pizza “marguerita” fatta col formaggio filante o un supermercato che ci venderà dell’ottima “mozarella” di bufala (e per bufala intendiamo il nome…)

C’è ancora chi resiste dicevamo.  E lo fa aggrappandosi agli ultimi barlumi dell’effimero benessere delle generazioni che ci hanno preceduto, le stesse che non a totale torto qualcuno reputa colpevoli delle attuali miserie (ma la storia è ciclica, non poteva che essere così). Esse pagano il proprio debito lasciandoci le ultime riserve, risparmi che hanno alimentato le nostre illusioni universitarie e che ci permettono di integrare magri stipendi o di metter su una famiglia le cui evoluzioni future sono racchiuse in un punto interrogativo di proporzioni colossali. In tanti ringraziano genitori e nonni per un tetto o per quella pensione che, laddove sufficiente, consente di sorreggere esperimenti di vita familiare a dispetto di situazioni lavorative tutt’altro che stabili. Tutto questo però è destinato a finire con il progressivo ed inesorabile incedere del tempo. I nonni e i genitori della nostra generazione, quei nati dagli anni 20 agli anni 60 (prima dell’ondata sessantottina…sarà un caso?) diminuiranno sempre più di pari passo con le loro risorse. E parallelamente si incrementerà il già incalzante movimento centrifugo di  ragazzi respinti da un mondo del lavoro sempre più insidioso e selettivo e dallo spopolamento di borghi, paesi e medie città, entità spaziali che offrono sempre meno.  Queste braccia e menti malgrado titoli e specializzazioni conquistati con anni di sacrifici si dirigono e si dirigeranno sempre più verso i caffè e le pizzerie delle grandi capitali europee o, nel migliore dei casi, verso le ultimissime posizioni lavorative disponibili nel nord Italia o in qualche studio o centro di ricerca della mitteleuropa.

Va poi considerato un fattore antropologico non di poco conto: l’eccesso di laureati.

Dopo il ’68 l’università è passata dall’essere un cimento in grado di selezionare e formare la futura classe dirigente ed i grandi professionisti in un emporio di titoli ed illusioni aperto a chiunque, in primis a coloro che pur non avendo uno straccio di talento o di vocazione vi si riversano spinti dall’ormai superato mito della laurea come lasciapassare per una vita lavorativa prestigiosa e remunerativa. Il risparmio accumulato dai nostri genitori finanzia studi per decine di migliaia di euro procapite in nome di questo mito generato dallo stesso mercato che sapeva di creare masse di illusi che avrebbero ingolfato il mercato del lavoro lasciando nel contempo sguarniti quei settori considerati umili, faticosi, sporchi come agricoltura, artigianato, lavori manuali spazianti dall’idraulica al facchinaggio. Il risultato è che le università  sfornano continuamente profili in eccesso rispetto alla domanda specifica. Abbiamo fiumane di umanisti, di storici dell’arte, di sociologi, in un’epoca in cui le arti del trivio sono considerate alla stregua di grammofoni in una discoteca, medici, avvocati e architetti in quantità decine di volte superiori al fabbisogno, il tutto attraverso vagonate di soldi buttati (quindi rimessi in circolo dopo la giacenza “improduttiva” sotto forma di risparmio) per creare profili iper-specializzati in qualcosa per cui il mercato richiede un numero di maestranze ristretto e spesso selezionato attraverso canali diciamo secondari.

Gli unici reali beneficiari di ciò sono le boutique dell’illusione, i masterifici, le scuole di ultraspecializzazione, quindi ancora una volta il mercato, lo stesso mercato che ha desertificato la piccola e media impresa e la piccola agricoltura, che scoraggia l’artigianato, che ha spinto l’industria verso paesi meno costosi sostituendola con una costellazione di pizzerie, centri commerciali, catene di ristorazione dove un laureato in psicologia, legge o scienze politiche può utilizzare pizze per il test di Rorschach, portare hamburger brevi manu nell’ufficio vicino o spiegare con l’ausilio di tazzine e cucchiaino le forme di governo platoniche al cliente che sorseggia il suo frappuccino

Il terziario, l’informatica, la comunicazione, il mefitico “marketing” sono i nuovi settori trainanti, ben poco radicati al territorio e quindi richiedenti, oltre che la totale devozione alle sottili e subdole logiche del mercato, altrettanta flessibilità spaziale e temporale.

Venendo al nostro caso, nell’anemico sud già di suo poco votato all’industria e nella cui economia l’agricoltura, l’artigianato ed il piccolo commercio costituivano i settori di punta (eufemismo) tale fenomeno ha avuto la forza di un ciclone. Esistono borghi e paesi in cui l’età media cresce sempre più, in ampie fette semi-rurali di territorio la vita langue fra pensionati che discutono al bar e locali destinati al piccolo commercio puntualmente messi in vendita dopo l’ennesima esperienza fallita. Gli uffici anagrafici dei nostri comuni subiscono una continua emorragia di nati dagli anni 70 in poi, fantasmi per 350 giorni all’anno che ritrovano le proprie sembianze nei treni, negli autobus o negli aerei che solcano l’Italia nel periodo natalizio. Legami familiari spezzati, radici violentate e lanciate nel vento, professionalità mortificate e vendute al miglior, pardon, al primo offerente.

Osservo tale lento e inesorabile deperimento con una rabbia ed un’impotenza sconfinate vivendo nel contempo un continuo e lacerante conflitto interiore fra il mio io resistente e quello che cerca una soluzione migliorativa al mio lavoro psicologicamente massacrante e, mi si consenta, intellettualmente mortificante.  Entrambi in fondo sono sognatori e pragmatici al tempo stesso perché entrambe le strade hanno dei pro e dei contro di dimensioni colossali. Nel primo caso resto vicino alla mia famiglia e mi tengo stretto un lavoro comunque stabile che mi prende “solo” 30 ore alla settimana ed in cui sopravvivono premi, tredicesime e qualche piccolo benefit a costo di un’attività mentalmente devastante e della condanna a vivere in una città avente i deficit civici tipicamente meridionali. Nel secondo potrei assurgere ad una vita migliore in fatto di servizi al cittadino ed igiene di vita, ma alla mia età (36 anni) e con un titolo di studio umanistico che speranza avrei di trovare un lavoro in grado di darmi le medesime sicurezze economiche che sia al tempo stesso più appagante e meno stressante?

L’empasse continua e mi preclude ad oggi la pianificazione di un futuro evolutivo (matrimonio, figli, casa) pur lasciandomi il gusto agrodolce della sottile valenza rivoluzionaria del non volersi rassegnare ad uno sradicamento indotto e strumentale ad abiette logiche di potere.  La nostra terra potenzialmente paradisiaca nella sua materna generosità agricola, paesaggistica e climatica ed in quell’empatia scolpita indelebilmente nei suoi geni offre sempre meno, ma quel poco che resta continua ad essere meritevole di tutte le rinunce del mondo e lo dico con una consapevolezza lucida e folle, quella che mi porta a rendermi conto del fatto che l’opera di distruzione perpetrata in “joint venture” fra noi, spesso civicamente pessimi, e chi pianifica a tavolino degradi e movimenti sta oramai per raggiungere il suo scopo e che quindi presto anche gli ultimi impavidi dovranno pragmaticamente alzare bandiera bianca se vogliono investire nel proprio futuro (vedasi figli) con responsabilità e lungimiranza.

E’ una resa amara, così come è amaro il leggere frottole inerenti fughe da guerre che non esistono. La vera guerra è qui, nel mercato libero che ci ha riportati alla legge della giungla ed al nomadismo coatto, dove tradizioni, eccellenze ed inclinazioni sono spazzatura e dove il libero pensiero è sedizione.

Perdete ogni speranza voi ch’entrate e che restate, e fate altrettanto voi ch’uscite per andare a vivere per lavorare sotto un cielo straniero.